Improvvisamente di notte, a fine febbraio, è bruciata “la baracchetta “. Era un ricovero temporaneo costruito ai tempi del terremoto del 1915 e rimasto in piedi fino ad oggi, nella stessa zona dove poi hanno messo i Moduli Abitativi Provvisori, quelli costruiti per terremoto del 2009.
Per me era anche una specie di opera concettuale inconsapevole per via di una profonda crepa sulla parete che divideva in due la casa e anche la scritta dei tempi del fascio “A noi non piace la vita comoda”.
Dice che ci sono state delle grandi fiammate finite nel giro di pochissimo hanno lasciato solo un po’ di cenere, neanche tanta. Me lo ha detto S. la mattina dopo. Due giorni prima volevo fotografalo, seduto sulla panchina con baracchetta sullo sfondo, usando la Mamiya 645 che mi aveva prestato. Non l’ho fatto per pigrizia: tanto c’è tempo, pensavo.
Sento l’obbligo di mettere in fila questo episodio con altri due che sono successi: uno è il pastore abruzzese che ho fotografato e che poi è stato investito e ora cammina mezzo sciancato con tre zampe su quattro; l’altro è un tizio che ho fotografato e giorni dopo si è beccato un alcol test per due birrette appena prese al bar del paese, patente sospesa. Del resto lo diceva sempre anche il grandissimo Ferdinando Scianna che ai tempi suoi i vecchi del paese evitavano i fotografi in quanto iettatori daato che quando li vedevi o era per la foto da militare o per quella da mettere sulla lapide.
Si spiega così anche la reazione di H. , l’ambulante magrebino. Quando gli ho chiesto se lo potevo fotografare mi ha detto subito di sì ma intendeva solo la merce esposta sul portellone del Qubo. Lui si è tirato ben fuori dall’inquadratura, rifiutandosi fieramente di entrarci. Non mi ha voluto dare spiegazione ma ora mi rendo conto che c’era poco da spiegare e insistere su queste cose è vera maleducazione.